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Che si interpreti come mezzo di pressione politica, come tool necessario per esercitare il proprio diritto di partecipazione o strumento complementare alla democrazia rappresentativa, in Italia, il referendum popolare ha una lunga – e a volte, travagliata – tradizione. Ultimo esempio di una lunga serie, la recente proposta della Cgil di un referendum per la reintroduzione dell’articolo 18. La proposta/provocazione del sindacato è stata solo l’ultima a riaccendere il dibattito, oltre che sul tema di policy in sé, sugli “usi e costumi” del referendum in Italia e sul suo ruolo all’interno dei processi decisionali.
D’altronde, seppur vecchio quanto la nostra Costituzione, lo strumento del referendum non sembra essere mai stato così attuale: la crisi del sistema rappresentativo a cui si lega il drammatico astensionismo che ha caratterizzato tutte le elezioni più recenti, ha infatti portato molti a domandarsi se la nuova linfa vitale che serve alle nostre democrazie, non vada ricercata proprio in un nuovo e maggiore utilizzo degli strumenti di democrazia diretta.
A questa considerazione se ne lega poi una seconda: se è a nuove forme di partecipazione diretta che bisogna guardare, si deve tenere conto delle trasformazioni tecnologiche che hanno cambiato la vita – sociale e politica – di tutti noi e non ci si può non chiedere, se il futuro della democrazia, non dipenda proprio dalla sua capacità di adattarsi ai tempi che evolvono.
Sviluppo tecnologico e processi democratici
Non siamo di certo gli unici a porsi queste domande, le stesse istituzioni si stanno interrogando sul tema; negli ultimi mesi si sono infatti susseguite – tra Camera e Senato – le interrogazioni parlamentari con la richiesta di chiarimenti al Governo sulla impasse che continua a frenare la costituzione della piattaforma per la raccolta di firme digitali su referendum e iniziative popolari.
L’iter della piattaforma e della sua implementazione è indicativo di un certo clima di diffidenza da parte delle istituzioni nell’utilizzo della tecnologia per la gestione della cosa pubblica: un tracciato di discontinuità imprescindibile per dotare l’Italia di strumenti di e-democracy che, opportunamente utilizzati, siano in grado di rafforzare i meccanismi di consultazione popolare.
Il “Patto internazionale sui diritti civili e politici” delle Nazioni Unite, sottoscritto anche dall’Italia, garantisce il diritto dei cittadini a partecipare direttamente, attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare, al processo democratico e legislativo. Tre anni fa, nel 2020, il Comitato Diritti Umani dell’ONU ha condannato l’Italia (Comm. 2656/2015) per le “restrizioni irragionevoli” che il quadro normativo sulla disciplina della procedura referendaria, approvato più di 50 anni fa (legge 352/1970), pone al “diritto di partecipazione” proprio di ogni Stato democratico.
Con la loro decisione le Nazioni Unite hanno ufficialmente sancito il ritardo dell’Italia nell’attuazione di strategie digitali e la permanenza di ostacoli concreti all’attivazione di un istituto referendario efficace: pratiche burocratiche, costi elevati a carico dei promotori dell’iniziativa, un sistema antiquato per l’autenticazione delle firme; tutti elementi che rallentano un utilizzo moderno del referendum popolare e ne neutralizzano parzialmente l’efficacia. L’ammonimento dell’ONU si riflette nella Legge di Bilancio 2021 con cui il Parlamento italiano ha recepito le nuove norme sulla disciplina dell’istituto referendario, con l’obiettivo di renderlo più trasparente, veloce ed efficiente mediante la costituzione di una piattaforma digitale per la raccolta delle firme.
Un percorso in linea con la necessità di rilanciare la partecipazione civica attiva e accorciare le distanze tra cittadini e decision maker, rafforzando il gioco democratico. L’introduzione del nuovo mezzo digitale avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei legislatori, “svecchiare” lo Stato e colmare il divario tra l’Italia e altri paesi più evoluti, prevedendo, come indicato dalle Nazioni Unite, “percorsi per i promotori di iniziative referendarie per far autenticare le firme, per raccogliere le firme in spazi dove i cittadini possano essere raggiunti e per garantire che la popolazione sia sufficientemente informata” sui processi e i diritti/doveri costituzionali di partecipazione.
Nonostante l’urgenza di innovare un quadro legislativo anacronistico la piattaforma non è ancora entrata in funzione e gli ultimi due Governi in carica non si sono presi in carico l’onere di sbloccare la situazione, di fatto mantenendo uno status quo che rinvia l’attuazione di una norma strettamente legata all’affermazione democratica.
Il dibattito: la tecnologia come stimolo per le democrazie rappresentative
Al di là del caso specifico, il tentativo di ovviare al deficit di democrazia partecipata mediante il supporto di strumenti tecnologici innovativi, rientra nella ormai diffusa opinione (e prassi) che la crisi delle democrazie moderne vada affrontata rimettendo al centro delle decisioni il singolo cittadino, sia esso coinvolto direttamente sia esso rappresentato dai decision-maker. E’ lo stesso Codice dell’Amministrazione digitale a recitare che lo Stato italiano deve favorire ogni forma di uso delle nuove tecnologie, al fine di “promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini… al processo democratico e per facilitare l’esercizio dei diritti politici e civili sia individuali che collettivi”.
Il dibattito sul potenziale ruolo della tecnologia nella prassi democratica è divenuto preponderante nel corso degli ultimi anni. Ci si interroga oggi sulla forma e sul valore che i sistemi democratici assumeranno nei prossimi decenni, anche in considerazione della loro crisi: questa tendenza non può non tenere conto di quanto l’avanzare dello sviluppo tecnologico impatterà sulla vita istituzionale delle democrazie del futuro.
Se l’introduzione di internet e della rete hanno mutato in modo pervasivo quasi tutti gli aspetti della nostra socialità, l’arrivo delle piattaforme, dei social e la sempre maggiore accessibilità agli strumenti tecnologici, hanno posto con forza la questione dell’e-democracy, come forma storica della democrazia in cui la “partecipazione dei cittadini alle attività delle pubbliche amministrazioni locali ed ai loro processi decisionali” è garantita e stimolata “attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione”.
Alla base vi è l’impiego delle tecnologie ICT per aprire nuovi spazi di dialogo tra cittadini e rappresentanti politici, così da rafforzare o, in casi circoscritti sostituire, le forme di partecipazione più tradizionali.
Il dibattito sul ruolo della tecnologia all’interno del processo democratico è in corso da decenni e gli esperimenti di e-democracy sono molteplici e diversi tra loro. Basti pensare a quanto sta emergendo ad esempio rispetto alla tecnologia Blockchain, le cui potenzialità digitali si potrebbero riflettere – secondi alcuni – anche nella possibilità di stimolare maggiore trasparenza e partecipazione civica rispetto alla vita istituzionale e politica della democrazie moderne. La discussione è aperta ma la prospettiva che nuove forme di “democrazia tecnologicamente integrata” siano la via del futuro per il rilancio dei meccanismi democratici in crisi si è ampiamente affermata, ben oltre il dibattito teorico-filosofico.
Nonostante il fine della e-democracy, partecipativa o diretta, sia quello di rafforzare i principi democratici, l’utilizzo sempre più frequente della tecnologia nei processi decisionali non è esente da critiche e preoccupazioni.
Il pericolo della iper democratizzazione
Secondo alcuni opinionisti un uso spropositato delle tecnologie ICT nei processi legislativi, porterebbe alla polarizzazione delle posizioni, senza possibilità di compromessi, di fatto ingessando il dialogo e bloccando i processi decisionali. Altri, invece, individuano nell’uso della tecnologia un incoraggiamento per l’antipolitica e per l’“iperdemocrazia”, l’inizio, dunque, di una “deriva plebiscitaria” che incepperebbe il corretto funzionamento delle istituzioni: nella storia non esiste infatti, come ha spiegato il filosofo Alberto Burgio, “alcun esempio di esercizio della sovranità da parte di un’intera popolazione”. Una possibile manifestazione di questa problematica riguarda ad esempio la soglia minima di firme necessarie per l’attivazione del referendum abrogativo: le 500.000 attualmente richieste sarebbero infatti secondo alcuni proporzionate esclusivamente per la raccolta “analogica”; se trasposte nella dimensione digitale, rappresenterebbero al contrario un numero esiguo di adesioni, raggiungibile – come successo per i recenti referendum su cannabis e fine vita – con eccessiva facilità. Si rischierebbe così di favorire una sorta di moltiplicazione delle richieste referendarie, favorendo quella “iper-democratizzazione” e inefficienza legislativa che tanti temono quando si parla di democrazia digitale.
Se gestito in modo inappropriato, lo sviluppo tecnologico e la sua contaminazione con i sistemi democratici, potrebbe dunque portare ad una sorta di dominio del demos, alla fine incapace di prendere decisioni ponderate e di compromesso, sia nell’ambito della democrazia diretta, dove il rischio sarebbe maggiore, sia nell’ambito della democrazia partecipativa.
Stefano Rodotà, già nel 2009, nel suo celebre articolo “Tecnopolitica” illustrava con lucidità i possibili effetti dello sviluppo tecnologico sulla gestione della res publica. Il giurista osservava infatti come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione avessero la potenzialità di dare forme nuove alla politica disegnando un mondo in cui si potesse fare a meno “dei tradizionali mediatori sociali, espandendo i poteri individuali e collettivi e rivelando potenzialità egualitarie”.
Rodotà rilevava tuttavia come, una volta stabilito il potenziale dell’integrazione delle tecnologie ICT nei processi democratici, bisognasse concentrarsi sugli effetti indotti dal fenomeno della democrazia elettronica e su un doppio possibile esito: se da un lato, integrazione equivale a più partecipazione, dall’altro il ricorso massivo ai nuovi strumenti digitali, può portare alla costituzione di una “sfera politica separata, che assume soprattutto funzioni di rappresentanza che sarebbero state perdute dalle istituzioni tradizionali, così private di una legittimazione forte e svuotate del loro ruolo storico”.
La dicotomia è sempre in agguato e il nodo non è sciolto. L’opportunità di rilancio della democrazia partecipativa e il rischio di una fuga dei cittadini verso nuovi spazi di deliberazione e nuovi mezzi di organizzazione democratica, fatto non necessariamente positivo, sono le due facce di un fenomeno bifronte.
Nonostante i dubbi e le critiche, è innegabile che un uso ponderato della tecnologia all’interno dei meccanismi democratici, possa rappresentare un elemento di stimolo alla partecipazione politica e civica. Casi di successo come quelli delle municipalità di Barcellona e Reykjavik, dove la cittadinanza è ampiamente coinvolta nei processi decisionali, lo dimostrano.
Partecipazione e rappresentanza, due facce della stessa medaglia
Lo spazio creato dalla rete definito da Rodotà “il maggior spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto” ha innescato il coinvolgimento di realtà periferiche o emarginate dalla vita pubblica e i movimenti politici nati nell’era di internet hanno rinforzato la posizione dei cittadini rispetto ai decision maker (Castells, 2015).
Se pensata nell’ottica partecipativa, la rete può migliorare le democrazie moderne. La decisione di costituire una piattaforma digitale per la gestione dei referendum popolari va in questa direzione e restituisce ad una maggioranza spesso silente il diritto di intervento nella vita politica, aprendo nuovi spazi di dialogo. Così come successo con lo strumento del Dibattito pubblico, introdotto nell’ordinamento italiano con riferimento alle grandi opere infrastrutturali, è oggi un dovere dell’apparato statale rispondere alle sempre maggiori esigenze partecipative che stanno emergendo. Ispirato al modello del Débat Public francese, lo strumento – come recita il nome stesso – prevede la promozione di un vero e proprio dibattito pubblico, fatto di incontri di informazione e discussione, per raccogliere le posizioni della società civile nell’ambito della realizzazione di opere infrastrutturali particolarmente impattanti. Il principio, dunque, per cui a una maggiore accessibilità dei processi decisionali corrispondano democrazie più robuste è già stato più volte attestato a livello normativo ed oggi, il prosieguo del dibattito in questo senso non può non tener conto delle nuove possibilità offerte anche dallo sviluppo tecnologico.
Da questa prospettiva, l’attivazione per i cittadini della piattaforma per i referendum dovrebbe essere un obiettivo delle istituzioni stesse e di tutti i protagonisti della vita politica del Paese. Un obiettivo di interesse comune per stimolare nuove forme di partecipazione basate anche sulla web democracy che, se ben utilizzata, può divenire garanzia di inclusione nei processi decisionali.
PUBLIC AFFAIRS ANALYST