Internet e social media:opportunità o minaccia per la democrazia?

Nel gennaio 2019, il sociologo e politologo statunitense Larry Diamond ha pubblicato sul ‘Journal of Democracy’ un articolo dal titolo “The threat of postmodern totalitarianism” che anticipa una più ampia ricerca e riflessione sul concetto di totalitarismo post-moderno. In questo interessante contributo Diamond mette in guardia dalle minacce che possono venire alla democrazia dall’utilizzo dei social media.

La democrazia non è un corpo statico o eterno, piuttosto è in continua evoluzione e nel processo di costante mutamento sta cercando di adattarsi con molta fatica ai tempi che si trova ad attraversare.

I social media sono diventati un fenomeno di massa a partire dai primi anni Duemila ma la loro applicazione al mondo della politica è recentissimo, se si paragona il background storico fatto di trasmissione top-down da parte dei mezzi di comunicazione di massa ‘tradizionali’ come sono stati – e continuano ad essere – la stampa prima, la radio e la televisione poi.

I docenti della Europe Business School (ESCP Europe) Andreas Kaplan e Michael Haenlein hanno definito i social media come applicazioni Internet basate sui presupposti ideologici e tecnologici del Web 2.0, che consentono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli utenti. La differenza con i media tradizionali è evidente e coinvolge anche la sfera economica dato che i social media sono relativamente a basso costo mentre per i media tradizionali sono richiesti generalmente cospicui investimenti finanziari.

Secondo Diamond, l’ottimismo che ha accolto inizialmente lo sviluppo dei social media ha già lasciato il campo al più nero pessimismo e ciò alla luce della grave minaccia che l’utilizzo spregiudicato di questi strumenti starebbe portando alla tenuta delle istituzioni democratiche e, in fondo, alle libertà fondamentali. La bontà dello strumento non è ovviamente in discussione, la criticità risiede nei suoi usi per scopi eversivi, violenti e criminali, e nella ricerca di possibili rimedi e antidoti.

La percezione diffusa è che i regimi non democratici sfruttino il ‘lato oscuro’ di internet e le sue infinite potenzialità allo scopo di restringere la platea di soggetti ammessi alla ‘navigazione libera’ e per controllare la popolazione, mentre le democrazie lottano contro il tempo per garantire che internet resti uno spazio libero, sicuro e che non si trasformi in un’arena globale di sorveglianza e di manipolazione, cioè in una sorta di moderna realizzazione della società descritta da George Orwell nel suo romanzo “1984” e in quello che Diamond definisce “totalitarismo postmoderno”.

Larry Diamond si chiede se il modello di business delle aziende di social media sia parte della minaccia, dato che queste ricavano gran parte delle loro entrate dalla vendita di pubblicità (nel 2017 circa il 60% del totale dei ricavi della pubblicità online mondiale è andato a Google e a Facebook, configurando in sostanza una situazione di oligopolio) e dallo sfruttamento per fini commerciali dei dati degli utenti, spesso senza che questi ne siano consapevoli e senza che abbiano potuto esprimere un consenso informato.

Sulla falsariga di quanto avviene con le social media companies, Diamond invita ad immaginare una situazione nella quale anche i governi fanno “collezione” di dati dei propri cittadini, integrandoli con analisi psicologiche e comportamentali. Mentre nelle democrazie i cittadini possono sempre provare a far valere i propri diritti in ambito di privacy, nei regimi non democratici, dove il potere esecutivo e quello giudiziario sono tra loro intrecciati e fortemente accentrati, i cittadini non hanno quelle stesse possibilità di autotutela. Per di più, in quei Paesi i social media sono sfruttati dai dissidenti per mobilitare la popolazione in atti di protesta e tentativi di rivolta (come è stato nel caso della cosiddetta Primavera araba tra il 2010 e il 2011) per cui tendono ad essere oggetto di un controllo costante e pervasivo da parte del potere costituito.

Tuttavia, l’utilizzo scorretto dei dati degli utenti delle piattaforme social riguarda anche le democrazie, come ha dimostrato il caso sollevato nel marzo del 2018 dal Guardian e dal New York Times, concernente le elezioni presidenziali USA del 2016, nel quale sono stati coinvolti Facebook e la società di consulenza e marketing online Cambridge Analytica.

La trattazione dei dati, la loro protezione e il modo che gli Stati hanno di approcciarsi a questa complicata materia sarà decisivo anche per le sorti della democrazia. I modelli alternativi sono almeno tre: il modello USA, molto sbilanciato sulla deregulation economica neoliberista con le leggi del mercato che spesso prevalgono sull’esigenza di tutela della privacy; il modello europeo, che cerca – seppure a fatica – di far prevalere i diritti dei cittadini sulle regole del mercato; il modello cinese, che vede lo Stato imporre un rigido controllo capillare e invasivo sulla vita dei cittadini.

Nelle democrazie gli effetti politici deleteri dei social media sono più forti perché si manifestano in un ambiente che ha come fondamento della propria legittimità costituzionale la libertà di espressione. Per cui accade che la politica online è estremamente più polarizzata e violenta che offline, le persone tendono a rinchiudersi nelle ‘echo chambers’ (camere dell’eco) dove entrano in contatto solo con opinioni simili alle proprie, chiunque può diventare editore o pretendere di essere giornalista, circolano molte notizie false (fake news) e i flussi di informazione possono essere manipolati per fini politici e sociali anche da attori esterni ostili (a volta parastatali). In poche parole, la democrazia viene inquinata, se non compromessa, nel suo cammino.

A proposito di fake news, il tema è entrato con prepotenza nel dibattito politico che ha preceduto le elezioni italiane del 4 marzo 2018 e, secondo quanto riporta il primo numero dell’Osservatorio sulla disinformazione online pubblicato il 6 marzo 2019 dall’AGCOM, «il volume di disinformazione online ha raggiunto il livello massimo in corrispondenza delle elezioni politiche del 4 marzo e della successiva formazione del nuovo governo. In media, la disinformazione ha interessato l’8% dei contenuti informativi online prodotti mensilmente lo scorso anno e ha riguardato soprattutto argomenti di cronaca e politica (nel 53% dei casi)».

In particolare, sui social media ciò che è estremo, gridato o violento funziona meglio di ciò che è solo vero.

Le teorie dei complotti attirano più delle notizie vere. Di frequente si osservano vere e proprie campagne di manipolazione delle informazioni studiate a tavolino e programmate con l’ausilio di vasti eserciti di trolls (soggetti pagati per interagire con gli altri attraverso messaggi provocatori, senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione online), bots (account automatizzati che interagiscono sui social facendo credere agli utenti di comunicare con una persona reale) e deepfakes (la sostituzione realistica dei volti in video esistenti grazie a software estremamente avanzati, guidati da intelligenza artificiale, e che fanno dire ai soggetti coinvolti parole che non hanno mai detto) che costituiscono una pericolosa e subdola minaccia per le democrazie.

La rivoluzione di internet, e con essa quella dei social media, è stata possibile anche grazie all’assenza di regole, ma la sua futura evoluzione deve essere gentile e disciplinata: le democrazie devono indirizzare e governare attentamente lo sviluppo di internet, pena l’essere inesorabilmente travolte.

Si associa a questa preoccupazione anche il padre del Web, l’ingegnere Tim Berners-Lee. Quando nel 1989 inventò il World Wide Web di certo non poteva immaginare che trent’anni dopo i siti online sarebbero stati più di 2 miliardi e che la sua creatura sarebbe stata in grado di cambiare radicalmente la vita degli essere umani. Tuttavia, avendone visto sviluppare oltre alle potenzialità anche numerose problematiche, ha fondato la World Wide Web Foundation per provare a contrastare la deriva indesiderata, spesso anche criminale, del web e a ridurne i rischi connessi: «The free and open web faces real challenges. More than half the world’s population still can’t get online. For the other half, the web’s benefits come with too many risks: to our privacy, our democracy, our rights».

Martedì 12 marzo 2019 il quotidiano ‘la Repubblica’ ha intervistato Berners-Lee e le sue parole sono strettamente correlate all’argomento qui trattato: «In questi trent’anni il web ha creato grandi opportunità di crescita […] però ha offerto anche nuove opportunità ai truffatori, a chi diffonde l’odio, ai criminali in generale» e questo dipende anche «da come sono scritti gli algoritmi dei social network». Per quanto concerne il rapporto politica-social network, l’inventore del Web dice di aver «suggerito a Facebook di cancellare i post contenenti pubblicità politica. In molti paesi la comunicazione dei partiti politici in televisione è strettamente regolamentata […], sul Web invece nessuna regola […]. Io credo che il Web possa sì dare un contributo fantastico alla democrazia, ma soprattutto se è utilizzato dai governi per comunicare in modo trasparente con i cittadini tramite gli open data».

Di diverso tenore ma ugualmente molto interessante è un’altra intervista, apparsa su ‘la Repubblica’ del 13 marzo 2019, al sociologo e storico della scienza Evgeny Morozov. Morozov avanza una tesi opposta a quella di Berners-Lee e il fulcro della stessa è che «la crisi che stiamo vivendo non è solo internettiana, ma della politica, con masse che non si sentono rappresentate, e della socialdemocrazia, sempre meno capace di mantenere la sua promessa egualitaria in un sistema altamente globalizzato e finanziarizzato. Dunque è una crisi tripla e non ha senso affrontare solo un aspetto. […] Non ha senso sviluppare sistemi tecnologici sempre più efficienti, se verranno usati a fini punitivi e non democratici […]. Il problema non è democratizzare l’intelligenza artificiale, ma la società e l’economia. […] Prima facciamo una discussione seria su come risolvere le tre crisi e poi, solo dopo, su quale politica tecnologica abbiamo bisogno, dal momento che a oggi in Europa manca».

Venerdì 15 marzo 2019, sempre dalle colonne de ‘la Repubblica’, l’autore del libro “The Game”, Alessandro Baricco, si pone sulla scia delle parole di Berners-Lee e di Morozov, sostenendo che la crisi politica in atto da anni «ci sarebbe stata anche se non ci fosse stato il ‘game’, che è stato solo un acceleratore». Il Web immaginato da Berners-Lee «seguiva un principio libertario, non aveva padroni» mentre in anni più recenti «sono nate applicazioni che seguono altre logiche. Facebook, Whatsapp e Instagram hanno dei proprietari, seguono algoritmi che quei proprietari decidono, sono applicazioni che vengono acquisite e cedute, producono profittiNon sono, insomma, un campo libero».

Larry Diamond conclude il suo articolo con un concetto perentorio: «Democracies must establish for themselves clear human-rights frameworks for the use of IA and seek to have these adopted worldwide. […] Increasingly, it is impossible to separate the spheres of online politics and offline politics. Digital rights are human rights, and human rights are digital rights». La protezione dei dati sarà il diritto umano universale da conquistare nel XXI secolo.

Come dimostrano il contributo di Diamond e le parole di Berners-Lee, Morozov e Baricco, l’intreccio tra politica, internet, innovazione tecnologica, nuovi media e protezione dei dati rappresenta il tema del nostro tempo.

La politica ha il dovere di trasformare le minacce in opportunità e per fare ciò servono regole precise. La classe politica giocherà un ruolo fondamentale e delicato in questa partita che si preannuncia lunga e difficile. Lunga perché finora i politici hanno mostrato scarsa disposizione, quando non ostilità, ad affrontare con decisione queste tematiche, per cui servirà un cambio di rotta radicale che richiede tempo. Difficile perché l’obiettivo di rendere internet un luogo sicuro e un terreno fertile per i valori democratici va in direzione opposta rispetto all’attuale senso di marcia del Web.

Finora una grossa fetta del mondo politico ha dimostrato di non voler fare sul serio e, piuttosto che lottare, sembra essersi adeguata allo stato delle cose per perseguire il proprio tornaconto: sfrutta le opportunità che i social media offrono per comunicare senza intermediari e per raggiungere fasce di popolazione non intercettate dai mezzi di comunicazione tradizionali; modifica il suo linguaggio in senso estremista e violento per assecondare la logica dell’algoritmo, optando per lo scontro più che per il confronto.

Lo sviluppo di internet e la sperimentazione delle sue sempre nuove potenzialità, così come la continua innovazione tecnologica, appaiono come un fiume in piena. Spetta alla politica, e in particolare alle democrazie, il delicato compito di costruire argini sicuri, con o senza la collaborazione dei giganti del Web. Per il futuro delle democrazie è quasi una questione di vita o di morte: potranno sfidare il passare del tempo solo se riusciranno a garantire il rispetto della dignità umana e delle libertà e dei diritti fondamentali anche nello spazio virtuale chiamato internet.

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