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La sospensione dei profili Facebook e Twitter del quasi ex inquilino della Casa Bianca fa sorgere domande e potrebbe riaprire la porta al tema della regolamentazione delle Big Tech
A distanza di giorni dalle immagini sconvolgenti dell’assalto al Campidoglio di Washington portato in mondovisione da una folla di supporter del presidente uscente degli Usa Donald Trump (colpito da una richiesta di impeachment per “incitamento all’insurrezione”), continuano i dibattiti sullo stato di salute della democrazia americana e occidentale, le cui fondamenta iniziano a risentire degli effetti causati da campagne populiste ed estremiste di vario segno.
Tra i vari ambiti di discussione connessi agli eventi del 6 gennaio scorso, nelle ultime ore sta prendendo in particolar modo piede la riflessione sul ruolo di primo piano che stanno giocando i social network e i principali gruppi di Big Tech nelle giornate convulse che stanno vivendo gli Stati Uniti. Non sono infatti passate inosservate la decisione di piattaforme come Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat di bloccare in via più o meno definitiva gli account di Trump, poiché ritenuti in grado di innescare nuovi episodi di violenza, nonché la scelta di Google e Apple di escludere dai rispettivi store online l’applicazione Parler (social che ha accolto gli ambienti più estremisti della destra statunitense), in quanto sospettata di ospitare attività potenzialmente illegali.
Come si potrà immaginare, anche in questo caso gli utenti del Web si sono essenzialmente divisi tra due tesi contrapposte.
Da un lato si trovano quanti sostengono che sia in corso una censura ai danni dei portatori di idee invise all’establishment e al mondo della comunicazione (tanto nuova quanto tradizionale) mainstream, mentre dall’altro si collocano coloro che difendono le restrizioni imposte a Donald Trump e ai suoi seguaci, sia perché una società privata avrebbe tutto il diritto di decidere chi può far parte della propria community che in ragione della minaccia per la collettività rappresentata dalla narrazione trumpiana.
Premesse l’inaccettabilità e la nocività delle tesi incendiarie e spudoratamente false sostenute negli ultimi quattro anni dal quasi ex inquilino della Casa Bianca, quando si entra nel campo della limitazione della libertà di espressione di un leader politico risulta tuttavia opportuno adottare un atteggiamento di grande cautela ed evitare di brandire certezze granitiche, che magari in futuro potrebbero essere messe alla prova da vicende riguardanti il proprio Paese o un personaggio più in linea con le proprie posizioni, a maggior ragione se a scoprirsi difensori della verità sono soggetti come Facebook e Twitter, che per anni hanno consentito a Trump di diffondere in ogni angolo del globo post incendiari o diffamatori, senza prendere alcun provvedimento fino a quando il Presidente americano uscente ha avuto l’opportunità di rivalersi sul mondo della Silicon Valley.
Di conseguenza, il blocco dei profili ordinato da Jack Dorsey e Mark Zuckerberg in persona rappresenta un precedente insidioso e non può che far sorgere domande come le seguenti: a chi spetta stabilire se un’opinione politica è ammissibile o meno? In base a quali processi si arriva alla rimozione della possibilità di pubblicare contenuti? L’interessato o interessata dal provvedimento di sospensione dell’account ha la possibilità di far valere le sue ragioni prima che la decisione venga presa? Chi ha il compito di vigilare sul rispetto dei criteri che distinguono i messaggi ritenuti accettabili da quelli che non lo sono? Chi controlla i controllori, in modo che essi non cadano nella tentazione di abusare del proprio potere?
Oltretutto, le decisioni prese da Twitter, Facebook e gli altri contraddicono uno degli argomenti storicamente usati dai gestori delle piattaforme social per difendersi dalle accuse di aver favorito il proliferare di casi di fake news e hate speech, ossia la tesi di non avere alcuna responsabilità per le informazioni e per i contenuti che circolano sui loro portali.
Nel momento in cui i proprietari di social network ormai al centro della vita pubblica di numerosi Paesi di più continenti decidono di rivendicare una responsabilità di carattere editoriale, appare irrinunciabile che insieme agli onori essi assumano anche gli oneri cui devono sottostare i media tradizionali, ovvero almeno parte delle regole che disciplinano il funzionamento di questi ultimi.
La questione della regolamentazione dei social, e per estensione degli oligopoli digitali di Big Tech, è all’ordine del giorno ormai da alcuni anni e sarà certamente tra le priorità della nuova Amministrazione Usa guidata da Joe Biden, verso la quale non è azzardato immaginare che Dorsey e Zuckerberg abbiano voluto accreditarsi. Quale miglior occasione degli eventi degli ultimi giorni per ridare impulso a discussioni sovranazionali, che vedano in prima linea almeno gli Stati liberaldemocratici, su come porre alcuni limiti a contesti che a lungo hanno avuto le sembianze del Far West? Lasciare che anche sull’espressione di opinioni siano i Ceo della Silicon Valley a fare da sé non sembra essere la migliore delle soluzioni possibili.
Senior Policy Analyst at Adl Consulting